Introduzione di Brandon LaBelle [1]
Come nell’opera precedente di Boyce, Feeling Her Way – esposta al Padiglione britannico nell’ambito della Biennale di Venezia 2022 – il canto è presentato in modo da cogliere l’accezione delle voci individuali come vettori di storie personali; la grana della voce, come Roland Barthes ci invita a comprendere, rivela le persone come respiri viventi, ricolmi di esperienza, che il canto sprona in maniere profondamente commoventi. Inoltre, nelle opere di Boyce le singole voci sono posizionate in modo da aver parte in un insieme più ampio – l’artista mostra particolare interesse a comporre in modo da indicare che la voce non è del tutto singola, non del tutto autonoma. Semmai le voci si moltiplicano per sostenersi a vicenda; si sovrappongono, si intersecano, si armonizzano ma interferiscono anche l’una con l’altra; si intrecciano ad altri suoni, all’uso di strumenti musicali e registrazioni mixate; le voci sono situate, posizionate, collocate all’interno di architetture e ambienti le cui risonanze le trasportano, garantendo forme attive di ascolto. Tutto questo trova reiterazione nella presentazione di Benevolence, in cui le voci registrate agiscono in associazione in maniera consonante e dissonante. Persino il suono di una singola voce viene duplicato e composto attraverso più canali al fine di interagire con se stesso.
Il concetto di voce come singolare e plurale, come individuale e multipla, trova elaborazione nell’opera filosofica di Adriana Cavarero. [2] Tracciando una storia più ampia delle idee (in ambito occidentale) sul tema della voce, Cavarero difende la tesi che vuole la voce come elemento distintivo attraverso cui l’individuo viene riconosciuto come “essere unico”. Contro il retaggio del pensiero platonico, che relega la voce a puro concetto di logos e di espressione verbale delle idee, Cavarero cerca di recuperare la voce come respiro, riverbero di persone fisiche viventi, ove il suono della voce va oltre la presa linguistica. Inoltre, l’unicità dell’essere che Cavarero evidenzia come centrale nella vocalizzazione si posiziona in modalità che superano una visione prettamente “individualistica” – l’unicità fonica della voce emerge come elemento che esprime il valore di ogni voce, e quindi come contributo alla più vasta comunità umana. Infatti, il suono di una voce è già sempre ascolto di altre.
Ci sono voci nell’opera di Boyce — voci che si fanno sentire nella pubblica piazza, portando con sé i testi e le melodie della storia e i suoi significati, testi scritti da altri che passano attraverso voci altrui. Che tipo di risonanze emergono lì, in Piazza Vecchia? Nel canto che fruga le cavità della storia per evocare un movimento reattivo negli altri—di ricordo e recupero, per risvegliare i fantasmi della storia affinché ci facciano da guida nelle nostre lotte di oggi? Le voci che risuonano in Benevolence sono voci che suonano nel contesto di tempi difficili, richiamando non solo le scene dei cittadini che a Bergamo e in tutta Italia cantavano dai balconi durante i lockdown per il COVID-19 nel 2020 e 2021, non solo questi commoventi rituali posti in atto per contrastare la morte e la solitudine, ma anche le storie delle guerre mondiali del ventesimo secolo e dei partigiani che combattevano sulle montagne circostanti la città e i cui canti coglievano la storia nell’intensità dei testi, evocando orgoglio e resistenza negli animi della popolazione – e oltre. Come sottolinea Boyce, i canti partigiani vengono continuamente evocati come indicatori di resistenza e insurrezione popolare. Da Il testamento del Capitano a Bella Ciao, le canzoni dei “combattenti per la libertà” catturano l’immaginazione di attivisti e cittadini allo stesso modo, rendendoli consapevoli dell’importanza delle lotte antifasciste, e di quanto siano intrinsecamente deboli la democrazia e il potere popolare. [3]
Questi movimenti di espressione sonora echeggiano nel tempo e nello spazio per infondere nuova vita a una molteplicità di storie, memorie, speranze e paure. Vanno a riempire la voce del dolore del ricordo. La voce non è forse chiamata a portare il peso della memoria, a superare e gestire i traumi personali, così come a confrontarsi con esperienze collettive più ampie? In tutta la sua portata di risonanza, nelle parole sussurrate e le emissioni gutturali, la voce fatica sotto il peso della memoria e della storia per produrre strumenti tesi a ricreare mondi e identità. Questi sono i movimenti che l’opera di Boyce trasporta, intessuti in una composizione lirica costituita da registrazioni audiovisive delle performance dal vivo. Installata all’interno del Palazzo della Ragione, Benevolence si situa sapientemente all’interno dell’architettura dell’ex tribunale. Dalla piazza della città alta all’architettura dello spazio espositivo, Benevolence trova il suo equilibrio di intervento pubblico e installazione situata, evento performativo e composizione multicanale, invitando il pubblico a entrare in un tempo e spazio di ascolto, visione, esperienza. Grazie a tanto impegno l’artista intesse ricerca e riflessione con le dinamiche viventi di persone e comunità, misurandosi con le violenze che caratterizzano la storia, pur mantenendo la speranza nel futuro. Attraverso le voci e le loro vivaci vocalizzazioni – la capacità di portare con sé le vicende fugaci degli eventi storici, trasportandole tra le pieghe risonanti del corpo e dei polmoni – l’opera compie un gesto di attenzione, volto a lottare contro l’emergere di nuove forme di fascismo al tempo presente.
Brandon LaBelle
[1] Questa introduzione è un estratto dal saggio commissionato a Brandon LaBelle su Benevolence di Sonia Boyce: The Joy of Cacophony, Milano, Lenz, 2024.
[2] Adriana Cavarero, For More Than One Voice: Toward a Philosophy of Vocal Expression (Stanford, CA: Stanford University Press, 2005).
[3] L’etnomusicologa Ana Hofman è autrice di un’importante analisi sulle modalità di recupero dei canti partigiani da parte di gruppi di attivisti e cori della ex Jugostlavia negli ultimi anni. Hofman indica che la pratica di “ridare suono” alla resistenza antifascista consente di ricavare nuovi canali e spazi di politica affettiva che sono d’ausilio per superare il “senso di incertezza o di “esaurimento politico”, per dirla con l’autrice. Cfr. Ana Hofman, “Disobedient: Activist Choirs, Radical Amateurism, and the Politics of the Past after Yugoslavia,” Ethnomusicology 64, no. 1 (Winter 2020).
Come descriveresti la tipica situazione che porta all’elaborazione dei progetti? Quali fasi sono più ricorrenti nel processo di elaborazione di un progetto?
Negli ultimi decenni ho seguito metodi e un processo di creazione delle opere d’arte simili, ma sempre con risultati apparentemente diversi. Che spesso dipendono dalla varietà di persone con cui lavoro a ogni progetto e dalla loro risposta all’invito a collaborare o a partecipare a una performance non preparata. L’improvvisazione e la spontaneità sono fondamentali. Il fatto che spesso siamo estranei l’uno per l’altro è un altro fattore ricorrente – anche se da molti anni lavoro con la medesima regista (Michelle Tofi) e produttrice di progetto (Niamh Sullivan). Il mio obiettivo, suppongo, è promuovere una comunità temporanea in cui le differenze vengono superate per realizzare insieme qualcosa di produttivo. Cerco di non dirigere lo svolgimento delle performance, di non dirigere neanche la troupe cinematografica che è lì per riprendere ciò che avviene, sebbene vi sia molta preparazione a monte, in modo che possano reagire a quello che accade sul piano tecnico e creativo. Spesso entrano in gioco vari fattori complessi – e a volte in conflitto tra loro – quando si cerca di incoraggiare, da un lato, l’interazione creativa e, dall’altro, di rimanere rispettosi di ogni contributo e del contesto sociale più ampio. Dopo che la performance si è svolta ed è stata documentata, la fase successiva consiste nel portare il materiale raccolto in un altro viaggio creativo e, auspicabilmente, intuitivo. In questa fase di post-produzione, che si compone di diversi processi tecnici, mi preoccupo di sfoltire (modellare la documentazione) e di fare un collage (giustapporre) dei diversi elementi per esporli nel contesto di una galleria.
Cosa speri che le comunità possano trarre dall’esperienza delle tue opere?
A un livello immediato, spero che coloro che vivono l’esperienza vengano toccati, innanzitutto, dall’emotività dell’opera. Poi – e questa è una caratteristica che emerge in tutti i miei lavori – dalle sue domande politiche o culturali sull’operato umano collettivo e individuale.
Cerco di resistere a un messaggio diretto e didattico e spero che coloro che vivono l’esperienza dell’opera apportino la loro prospettiva e comprensione personale.
E cosa, invece, ti auguri non imparino? C’è una particolare ideologia che speri di smantellare?
La certezza. La ferma convinzione che le cose, le persone e le risposte siano fisse e del tutto prevedibili. Spesso chiedo a collaboratori e partecipanti di andare oltre le aspettative su se stessi. Spero anche che ci sia un’apertura, un portale, per coloro che vivono l’esperienza dell’opera. Ma non ne sono mai sicura.
Chi sono i pensatori/intellettuali che ispirano il tuo lavoro?
Per molto tempo mi sono interessata al lavoro del filosofo francese Michel Serres (1930-2019) e al suo libro Il parassita, in cui sostiene che, essendo considerati parassiti (un elemento di fastidio) in quanto parte di un gruppo di minoranza – nel mio caso un’artista donna di colore proveniente dal Regno Unito – è possibile esercitare un’influenza importante nel discorso pubblico, creando così diversità e complessità che sono essenziali per la vita umana e per il pensiero progressista. Il rumore e il suono come momenti di interruzione che creano reti di comunicazione sono i punti chiave del libro Il parassita.
Il filosofo russo Michail Bachtin (1895-1975) e le sue idee sul carnevalesco e sulla polifonia, nel senso di una pluralità di voci, prospettive e libertà, continuano a influenzare il mio processo creativo.
L’artista brasiliana Lygia Clark (1920-1988) ha fortemente influenzato la mia pratica artistica. Nelle sue opere c’è una costante apertura verso gli altri senza un orientamento fisso, ma le sue opere sono saldamente basate sul corpo e sui suoi sensi.
Brandon LaBelle, artista e scrittore americano che vive in Europa, continua ad avere un profondo impatto sul mio pensiero con i suoi libri Background Noise e Sonic Agency.
E sto iniziando a conoscere il lavoro sperimentale di Pauline Oliveros con il suono (1932-2016) e la sua prospettiva sull’ascolto profondo come forma di attivismo, così come il rigore intellettuale di Louis Chude-Sokei e il suo libro The Sound of Culture: Diaspora and Black Technopoetics.
Infine, ma non per questo meno importante, recentemente mi hanno fatto conoscere il Pattern and Chaos Research Group della Norwich University of the Arts, in Regno Unito. Hanno appena pubblicato un libro, Pattern and Chaos in Art, Science and Everyday Life, che mi aiuta a chiarire i miei interrogativi sul mio rapporto con gli schemi ripetuti e sulla mia spinta verso le performance improvvisate e scomode.
In che modo la tua pratica ci aiuta a immaginare nuovi mondi o un mondo più abitabile?
La polifonia, come concetto filosofico, ci chiede come possiamo accogliere diverse prospettive piuttosto che una posizione monolitica. Non è tuttavia, di per sé, risoluzione dei conflitti. La risoluzione dei conflitti, che è una competenza professionale e un processo terapeutico, cerca di trovare una soluzione cordiale a un problema derivante da modi divergenti (e spesso negativi) di stare insieme. La polifonia persegue la sensibilità e la consapevolezza di una gamma di posizioni e prospettive. Non propone una soluzione per migliorare queste differenze, ma invoca una sensibilità, invece che una polarizzazione
Note biografiche
Sonia Boyce DBE RA (Londra, 1962) è un’artista e accademica interdisciplinare che lavora tra cinema, disegno, fotografia, stampa, suono e installazione. Nel 2022 ha presentato FEELING HER WAY, un’importante commissione per il Padiglione della Gran Bretagna alla 59a Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia, per la quale ha ricevuto il Leone d’Oro per la Migliore Partecipazione Nazionale. Boyce è salita alla ribalta all’inizio degli anni Ottanta come figura chiave del nascente British Black Arts Movement, con disegni figurativi a pastello e collage fotografici che affrontavano questioni di razza e di genere nel Regno Unito. Dagli anni novanta, tuttavia, Boyce si è spostata in modo significativo verso una pratica sociale che invita all’improvvisazione, alla collaborazione, al movimento e al suono insieme ad altre persone. Lavorando su una vasta gamma di tecniche, la pratica di Boyce si concentra oggi su questioni di autorialità artistica e differenza culturale. Nel 2016 Boyce è stata eletta alla Royal Academy of Arts di Londra e nel 2023 all’American Academy of Arts and Science di Boston. Da quando si è laureata all’inizio degli anni Ottanta, Boyce ha sempre lavorato nel contesto della scuola d’arte. Nel 2014, è diventata docente alla University of the Arts di Londra, dove detiene la prima cattedra di Black Art & Design. Un progetto di ricerca triennale sugli artisti neri e il modernismo è culminato nel 2018 con il documentario della BBC Whoever Heard of a Black Artist? che esplora il contributo alla storia dell’arte moderna britannica da parte di artisti di origine africana e asiatica trascurati dal sistema dell’arte. Nella King’s New Year Honours List del 2023, a Boyce è stata conferita una Damehood.